Ecco la traduzione di Paolo Giammarroni del 2020 per la "Settima elegia duinese" di RAINER MARIA RILKE
ELEGIE DUINESI: CRONOLOGIA
Dicembre 1909-aprile
1910. Incontro tra Rilke e la principessa Maria Hohenlohe, nata a Venezia e
sposata con Alexander von Thurn und Taxis. Un’amicizia che durerà 17 anni.
Gennaio-febbraio
1912: a Duino, vicino Trieste, ospite del castello della famiglia Torre-e-Tasso,
ideazione dell’opera in dieci “quadri”. Realizza subito la prima e la seconda Elegia. Avvia terza, sesta, nona e
decima.
Autunno 1913: a
Parigi completa la terza.
Novembre 1915: a
Monaco realizza la quarta. Lungo intervallo negli anni di guerra. Nel 1916
pesanti bombardamenti su Trieste provocano gravi danni al castello, che
richiederanno anni per essere sanati.
Febbraio 1922: a
Muzot, in Svizzera, nel castello di Werner Reinhart, Rilke realizza la quinta, la
settima e l’ottava. Quindi completa la sesta, già iniziata 10 anni prima tra
Andalusia e Parigi, e la nona, iniziata a Duino, fino a completare l’opera con
la decima Elegia, abbozzata a Parigi nel 1913. Nelle stesse settimane completa
i 55 Sonetti a Orfeo. La principessa
gli fa visita per farsi leggere queste ultime prove e verificare le sue
condizioni di salute. Spera di riportarlo a Roma, ma troppo tardi.
Giugno-ottobre 1923: prime
edizioni a stampa, prima per bibliofili e poi per le librerie.
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Settima Elegia
Non più implorazione, non più solo questo - oh voce liberata!
-,
sia la natura del tuo grido. È vero, grideresti come uccello
puro
lanciato in volo per una nuova stagione, quasi dimentica
che è un animale in affanno e non soltanto un singolo cuore
quello scagliato nell’intimità del cielo sereno. Forse
quanto lui,
faresti forse anche tu – affinché, sia pure invisibile, la
silenziosa amica
di te s’accorga, lenta si svegli ad una risposta e all’ascolto
si scaldi –
di un sentimento acceso dal tuo ardito sentire.
Oh, la primavera capirebbe – in ogni luogo
s’intonerebbe l’annuncio. Prima quel piccolo grido,
interrogante, nella pace crescente, un giorno
limpido che delinea tutto attorno consenso.
Quindi a salire, per gradi, su, per gradini di richiamo
verso il tempio del futuro sognato: - infine il trillo,
fontana che prepara la ricaduta all’energico schizzo,
in un gioco incoraggiante… E davanti a sé l’estate.
Non solo dell’estate tutti i mattini, non solo
Il loro modo di trasformarsi in giorno pieno, brillanti
d’inizio.
Non solo i giorni, teneri coi fiori attorno e in alto
coi forti e possenti alberi ben sagomati.
Non solo la devozione di queste forze dispiegate,
non solo i sentieri, non solo al tramonto i prati,
non solo, dopo un temporale concluso, il respiro
trasparente,
non solo il sonno che cala e un presentimento, la sera…
Bensì le notti! Bensì le notti così alte d’estate,
e le stelle, le stelle della terra.
Oh, esser morti una volta e conoscerle infinite
tutte quelle stelle: dunque come, come, come dimenticarle!?
Vedi, da lì chiamerei la mia amata. Ma non verrebbe
lei sola…
Verrebbero da misere tombe, a sostare,
altre fanciulle… Come potrei trattenere, allora, come,
il grido gridato? Chi è sprofondato chiede
comunque altra terra. – E a voi giovanette, una concreta
cosa afferrata qui una volta, serva per molte volte.
Il destino – credetemi – non è molto più di quel
che si condensa nell’infanzia; quante volte, ansimando,
avete superato il vostro amato, ansimando,
per una corsa beata, senza scopo, verso l’Aperto.
Essere qui è splendido. Lo sapevate anche voi, fanciulle,
all’apparenza deprivate, sommerse – voi, perse
nei peggiori vicoli di paese, o esposte come rifiuto.
Ci fu un’ora per ciascuna di voi, che dico: neanche un’ora,
solo
uno spazio tra due istanti, fuori dalle misure del tempo,
quella fu un’esistenza. Intera. Nelle vene, piena esistenza.
In verità, facilmente scordiamo quel che un vicino
sarcastico
non ci invidia o ci contesta. Invece vogliamo manifestare
in pieno la vita, ma la felicità più manifesta ci si rivela
soltanto dopo che, dentro di noi, la trasformiamo.
In nessun altro posto, amata, ci sarà mondo, se non in noi.
Tra mutamenti procede questa nostra vita. E svanisce
l’esterno nell’irrilevante. Dove un tempo c’era una solida
casa, ecco proporsi, sbiadita, un’immagine disegnata tutta
nel mondo del possibile, come vivesse ancora nella mente.
È lo spirito del tempo a crearsi grandi riserve di forza,
informi
come le tensioni urgenti che esso trae, da ogni cosa.
Non conosce più templi. Questo agitarsi del cuore
lo risparmiamo più in segreto. Dove ancora sopravvive
una cosa, ieri implorata, servita, adorata in ginocchio,
è ora trattenuta, così com’è, nell’invisibile.
Molti più non la percepiscono e rinunciano al beneficio
di edificarla qui e ora, con colonne e statue,
più grande, interiormente!
Ogni sorda svolta del mondo ha i propri diseredati,
cui non appartiene il precedente, né l’imminente.
Per l’uomo, anche l’ora più vicina è lontana. Non ci
confonda però questo: anzi rafforzi la custodia della forma
che ancora riconosciamo - . Essa stava una volta
tra gli uomini, stava dentro il destino devastatore,
dentro il non sapere verso-dove, stava come chi-è
e piegava a sé, da firmamenti protetti, le stelle.
A te, mio angelo,
a te la mostro ancora, qui!, salva
nel tuo sguardo, finalmente eretta.
Colonne, piloni, la Sfinge, i grigi archi rampanti –
sopra la città in rovina, o forse straniera, – del duomo.
Non fu un miracolo? Stupisciti, angelo, questo siamo
noi, tu, io, oh
Grande! Raccontalo, che qualcosa
realizzammo, il mio fiato non basta alla lode. Dunque
non sprecammo questi spazi, a noi concessi, questi nostri
luoghi. (E così paurosamente enormi, se mai non furono
colmati, neanche in millenni di nostra sensibilità).
Ma c’era una torre
grande, giusto? Oh angelo, lo era
grande, anche di fronte a te? Chartres era grande – e la
musica
saliva in alto e ci trascendeva. Ma anche solo
un’amante – solitaria alla finestra notturna…
non giungeva alle tue ginocchia?
Non credere che io supplichi.
Angelo, anche se ti supplicassi… tu non vieni! Perché
il mio appello è sempre sovraccarico di limiti; contro
queste forti
correnti non si può avanzare. Il mio chiamare
è come un braccio teso: e la sua mano alta, protesa
ad afferrare, resta aperta
davanti a te, di difesa e monito,
sempre più inconcepibile.
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